DOVREBBERO FARLE UN MONUMENTO

Lettera Mons. Delpini agli infermieri

DOVREBBERO FARLE UN MONUMENTO

Carissima,

Carissimo,

la dedizione fino al sacrificio, fino alla fatica estrema, fino all’eroismo che Lei

e il personale sanitario avete vissuto nel momento drammatico dell’epidemia

confermano un’attitudine che è consueta e una pratica che è quotidiana.

“Dovrebbero farLe un monumento!” Certo, una frase un po’ fatta, che sa però

unire in un’immagine tutto lo stupore, l’ammirazione e la dovuta riconoscenza

che merita.

1.Il monumento

L’immagine del monumento fa pensare a rappresentazioni di imprese e

personaggi che hanno segnato la storia di un popolo e danno il nome alla

geografia del Paese, almeno alle sue vie e alle sue piazze.

Ma io penso che il monumento che si dovrebbe dedicare a Lei e ai Suoi colleghi

non è di marmo, bronzo, con parole retoriche e scritte memorabili. Piuttosto è

impastato tutto di riconoscenza, di ammirazione e di grande stupore. Mi

permetto di usare questa immagine per esprimere i sentimenti che avverto

diffusi tra la gente di ogni ambiente, in tutte le parti della nostra diocesi, a

seguito di esperienze di ogni genere. Perché, dunque, oltre ai medici, “si

dovrebbe fare un monumento” a infermieri, operatori socio-sanitari, ausiliari

socio-assistenziali e a tutta la categoria dedicata alla cura ospedaliera e

domiciliare dei malati?

• Riconoscenza

La ragione più personale è la riconoscenza. Tutti coloro che hanno attraversato

o attraversano i giorni difficili della malattia, se riescono ad alzare lo sguardo

dal ripiegamento spontaneo su di sé, si accorgono di essere curati, accuditi,

accompagnati da persone come Lei. La competenza professionale, l’esperienza

che insegna i tratti della delicatezza e dell’efficacia, la dedicazione del tempo e

la prontezza nel farsi presente per rassicurare, offrire sollievo, ricordare

medicine da prendere o attenzioni da avere, trasformano la prestazione in

prossimità.

I malati sono riconoscenti perché sperimentano la presenza. Voi tutti siete la

risposta pronta alla chiamata. Siete la parola rassicurante quando si è

preoccupati. Siete il sorriso amico, che nessun manuale può prescrive-re,

quando ci si sente scoraggiati. Siete la battuta pronta, quando c’è il clima

adatto. Siete il rimprovero fermo, quando ce n’è bisogno. La riconoscenza è

talora, purtroppo, tardiva, perché la sollecitudine che ha aiutato torna in mente

quando ci si è già forse dimenticati il nome e il volto. E anche il desiderio di

mandare un mazzo di fiori o una bottiglia di vino è destinato a restare solo un

proposito.• Ammirazione

La ragione più obiettiva è, poi, l’ammirazione. Non solo chi è malato, ma anche

chi viene a fargli visita, il cappellano che gira in corsia, il medico che vi lavora

hanno motivo di ammirazione per il personale sanitario. Tutti, infatti,

riconosciamo nel vostro servizio quella sintesi di competenza e di attenzione

alle persone che ha qualche cosa di unico e di splendido, di quotidiano e di

straordinario, di bello e di eroico.

• Stupore

La ragione più “metafisica” e saggia, infine, è lo stupore. Ci sono lavori che

rivelano qualcosa di mirabile nell’essere umano. In un contesto che sembra

incline più a denigrare che a esaltare l’umanità, ci sono non solo persone, ma

intere categorie davanti alle quali si rimane stupiti. L’abitudine contribuisce a

rendere scontato quello che è sorprendente: eppure c’è una specie di

rivelazione del mistero di Dio nell’umanità, nel fatto che ci siano migliaia di

persone che iniziano la giornata o la notte dicendosi: «Ho un turno intero da

dedicare ai miei malati». Ci sono caratteri belli e temperamenti infelici, ci sono

storie serene che rendono sereni e storie complicate che creano tensione, ma

mettendo il camice è come se tutto si rivestisse di un impegno a servire.

2. Il messaggio

Esprimo il mio apprezzamento per gli operatori sanitari intesi come un insieme

di professionalità diverse. Non sono in grado, e non è questo il luogo, di

considerare le diverse categorie che possono rientrarvi. La realtà di questo

mondo è complessa e comporta questioni di formazione, inquadramento

professionale, retribuzione che Lei ben conosce e che io conosco poco.

Desidero, invece, insistere sul bene che Lei e tutti i Suoi colleghi vivete e fate,

non solo “sul lavoro”, ma anche con quello che insegnate a tutti noi.

• Tutta l’umanità che passa dalle “mani con i guanti”.

Le Sue mani, carissima, carissimo, sanno dell’umanità molto più di tanti

sapientoni che in ogni momento pronunciano sentenze, scaricano quantità di

parole, fanno scendere sulla povera gente piogge di interminabili sequenze di

immagini. Invece Lei tocca l’umanità, le Sue mani con i guanti passano sulle

ferite, sui punti doloranti, “sentono” il fremito e la paura, le rughe e la

tenerezza. Le mani con i guanti conoscono la fragilità delle persone, la loro

voglia di vivere o l’angoscia di morire, il desiderio di compagnia, l’invocazione

del sollievo. Le mani con i guanti conoscono anche la grandezza e la fierezza,

la virtù ammirevole e insieme la meschinità, l’arroganza, l’egoismo: non tutti i

pazienti sono uguali, tutti però sono uomini e donne e ci istruiscono sull’essere

fratelli e sorelle in carne e ossa. Forse si dovrebbe proibire di parlaredell’umanità a quelli che non hanno mai conosciuto l’umano toccandolo con le

mani con i guanti, ascoltando il gemito, sentendo i cattivi odori, studiando i

volti, medicando le ferite.

• Dietro le immagini la verità buona

Sfilano in reparto serie di persone così diverse: presenze fugaci e lungodegenti,

tutte le età della vita, malattie mortali e traumi passeggeri vissuti con una

specie di allegria. C’è di tutto. Però Lei sa quanto possa essere irritante gestire

i “caratteri difficili”: gli arroganti che pretendono di saperne sempre una in

più, gli egoisti che pensano che al mondo ci siano solo loro, i lagnosi che non

smettono mai di lamentarsi, i maleducati che trattano male compagni di stanza

e personale. Quanta pazienza deve avere anche Lei!

E la pazienza, non di rado, è l’arte di portare alla luce la verità buona che sta

dietro le immagini sgraziate e scostanti. Proprio il tempo della malattia, il

ricovero in ospedale o l’isolamento obbligato in casa possono essere l’occasione

propizia per smontare la facciata. Forse anche attraverso la Sua opera e

pazienza si può aiutare una persona a riconoscere di avere paura, a trovare

risorse di fede per sostenere il dolore e pensare alla morte, a parole e gesti di

bontà per consolare e aiutare i compagni di stanza, i malati “che stanno peggio

di me”. I cappellani che passano in reparto, i preti che visitano i malati a casa

mi raccontano storie edificanti di quello che persone come Lei riescono a fare:

curando i corpi, distribuendo medicine, medicando ferite si avviano anche

percorsi di saggezza, di conversione, di ritrovata speranza e stima di sé.

• L’arte del buon vicinato

Persone estranee si trovano vicine: non hanno niente in comune, eccetto il fatto

di condividere la malattia. Mondi lontani si incontrano e per un motivo

spiacevole. Lei sa che cosa può succedere. Può accadere che la convivenza

forzata risulti insopportabile: non si riesce neppure a decidere il programma

televisivo. Succedono, però, anche miracoli, perché ci sono anche santi. In

ospedale si incontrano quelli ordinari e sono un popolo innumerevole. Lei sa

quanto una Sua parola possa contribuire a vincere una timidezza, a

incoraggiare un racconto, a suscitare una curiosità, un interesse gli uni per gli

altri. E così, con niente, grazie al personale sanitario, si riconoscono i santi:

senza tanti discorsi dicono molto, percorrono il reparto seminando sorrisi, si

dispongono a raccogliere confidenze, sfoghi, implorazioni, propiziano la

preghiera comune, contribuiscono a creare quel clima che è già una terapia. Si

pratica così, tra persone sconosciute fino al giorno prima, l’arte del buon

vicinato, lo scambio di favori, la condivisione delle esperienze... conoscenze

che poi potranno diventare amicizie.Quando un prete diventa un degente, anche in mezzo ai suoi guai, spesso è

un guaritore ferito: mentre cura i suoi mali, si fa carico anche di quelli degli

altri e, se non sa come guarire i corpi, medica le ferite dell’anima. Forse anche

Lei ha trovato, tra i suoi malati, persone così: santi ordinari, guaritori feriti.

Forse qualcuno ha guarito anche Lei.

3. Non si finisce mai …

Non mi permetto certo di propormi come un maestro in una professione che

posso apprezzare solo come osservatore, di cui mi avvalgo come paziente.

Vorrei solo aggiungere parole di incoraggiamento per esprimere la mia

sollecitudine pastorale: sento doveroso far giungere un messaggio per dire che

mi sta a cuore la Sua vita personale e familiare, insieme con la qualità del

servizio che Lei rende ai malati che ricorrono alle Sue cure.

• Imparare le competenze

L’evoluzione della scienza è uno dei fattori più significativi di questo nostro

tempo: come dicono, non c’è memoria di progressi così rapidi e significativi.

D’altra parte, in particolare nell’emergenza della pandemia di Covid-19, anche

la scienza si dichiara più modesta, forse addirittura si sente umiliata: più sa e

più si rende conto di quello che non sa! A ogni modo, si deve essere grati ai

ricercatori e a tutti coloro che sostengono la ricerca perché scoperte affascinanti

hanno reso possibile curare malattie e alleviare il dolore.

È doveroso per tutto il personale sanitario l’aggiornamento e l’incremento di

conoscenze e competenze. È doveroso che anche “il sistema” riconosca il

merito di chi continua la sua formazione professionale. Mi sembra che sia

anche doverosa una collaborazione senza separazioni troppo nette tra i diversi

ruoli. Di Lei, infatti, sento dire che “ne sa più dei dottori” e d’altra parte avverte

la mortificazione di una gerarchia troppo rigida: ci sono competenze che non

sono garantite dai titoli di studio, anche perché le nozioni scientifiche,

diventando terapie, esigono di essere personalizzate e con i singoli pazienti ci

sta più Lei che il medico specialista. Non si finisce mai di imparare: in ambito

scientifico e in metodologia di lavoro in équipe.

• Crescere nella relazione di cura.

Il prendersi cura delle persone, in particolare di persone malate e fragili, è

un’arte che non si impara sui libri, ma nella pratica vissuta con sapienza e

compassione. È più un esercizio quotidiano che un insegnamento da seguire.

Non è, però, inutile imparare dagli esperti ad approfondire le dinamiche

relazionali: in esse emergono aspetti di noi stessi che si possono meglio

conosce-re e mettere a frutto nell’esercizio della professione, come nellaquotidianità. Anche se lezioni e teorie possono sembrare solo “semplice buon

senso detto in modo complicato”, il sentirne parlare aiuta a dare un nome a ciò

che si percepisce e a mettere un po’ d’ordine e di disciplina nelle emozioni,

nelle reazioni, nelle profondità meno esplorate dell’animo umano. Si potrebbe

ripetere l’esercizio che ho imparato da un mio amico: si è messo a elencare gli

ausiliari del verbo “prendersi cura”. Si può cominciare con la lettera A:

ascoltare, accogliere, accorgersi, annunciare, attendere, affidarsi,

accompagnare, ammirare, ammonire, animare, annunciare.

Lei può forse continuare a scrivere tutto il vocabolario, quasi una gara con i

Suoi colleghi, una gara che si svolge in varie lingue, nella lingua madre di

ciascuno. Sono verbi che indicano un “dover fare” che può portare anche il

frutto di “dover essere, diventare”.

• Cercare nuovi equilibri

Lei, come tutti i Suoi colleghi, non è solo “infermiere”. È una donna, un uomo,

ha una famiglia, appartiene a una comunità, vive in un Paese, viene da altri

Paesi e continenti, non Le mancano, forse, problemi di salute, forse non riesce

a liberarsi di qualche “dipendenza”, coltiva la passione per qualche cosa di

bello. Non si finisce mai di cercare di mettere ordine nella vita, nei tempi, negli

impegni. Anche perché cambiano le situazioni e le condizioni personali:

diverso è vivere un momento ordinario o vivere una emergenza, diverso è il

tempo della giovinezza e dell’età adulta, diverso è avere famiglia o vivere da

soli, abitare vicino al posto di lavoro oppure lontano, essere in piena salute o

dover tenere sotto controllo una patologia, essere responsabili di un’équipe o

essere all’inizio della propria carriera. In questa varietà di situazioni, ciascuno

è chiamato a praticare il suo stile e a fare le sue scelte. Mi sento, però, di

raccomandare una pratica che io trovo molto costruttiva. Per esercitare un

discernimento, fare il punto della situazione, è utile fermarsi un momento, di

tanto in tanto, per domandarsi: che uomo, che donna sto diventando? Quali

sono le mie priorità?

Per chi è sposato, è anche doveroso chiederselo come coppia. Per chi riconosce

in una persona saggia un punto di riferimento, come confessore, direttore

spirituale, è di aiuto consigliarsi e dialogare con sincerità e disponibilità.

• Prendersi cura di sé

Il prendersi cura delle persone non è mai solo un lavoro e tutti Le riconoscono

quel coinvolgimento equilibrato che consente la compassione senza essere

destabilizzante. Proprio per l’equilibrio tra i diversi aspetti della vita e quello

personale è doveroso che, anche chi cura gli altri, si prenda cura di sé. L’animo

umano, come il fisico, richiede attenzioni. Tutti abbiamo bisogno di pregare, dipensare, di riposare, di controllare istinti e passioni, ritmi di vita e abitudini

alimentari. Sono cose che Lei è abituato a insegnare agli altri, con

raccomandazioni insistenti. C’è sempre, però, il rischio di ritenersi esonerati da

quello che per gli altri è necessario: c’è sempre chi raccomanda di non fumare,

di non bere troppo, e poi non riesce a smettere di fumare e di bere! Per la mia

esperienza, mi permetto di suggerire soprattutto la sapienza nella gestione del

tempo.

Non è lo sforzo di un momento che ci aiuta a star bene, per quanto è possibile;

è piuttosto un saggio ritmo che organizza lavoro e riposo, giorni di lavoro e

giorni di festa, e non dimentica il tempo da dedicare alla famiglia, ai genitori

anziani, ma anche a una tranquilla camminata, a un servizio di volontariato, a

una presenza in comunità.

• Farsi ancora domande

L’universo è pieno di misteri e su questo si può anche “fare accademia”, cioè

discuterne comodamente seduti su un divano, accumulando luoghi comuni,

titoli senza argomenti, parole di buon senso e gusto per il clamoroso. Ma Lei

incontra le domande non nelle conversazioni da salotto, ma nel Suo quotidiano

assistere persone malate, inquiete sulla loro condizione, angosciate per il

proprio futuro; incontra domande nei familiari che fanno visita ai malati e

sentono lo strazio dell’aggravarsi delle condizioni e dell’affievolirsi delle

speranze; incontra domande sconvolgenti come ferite, quando a soffrire sono i

bambini, quando nell’angoscia sono mamme e papà impotenti; incontra

domande come suppliche, quando il male curato tante volte negli altri entra

nella vita di una persona cara, un collega, un’amica, un amico. La consuetudine

non L’ha resa indifferente.

La scienza non L’ha convinta al cinismo rassegnato alle “leggi della natura”. I

luoghi comuni non L’hanno in-dotta a ripetere banalità sulla “volontà di Dio”.

La rivelazione di Gesù a proposito di Dio suggerisce che le domande devono

essere rivolte all’unico interlocutore che possa dire una parola. E non finiremo

mai di porre domande di fronte a Gesù crocifisso. La parola che ascolteremo

non sarà una formula, ma una vocazione: perciò dura tutta la vita, finché

l’amore, che consola il dolore, cura la malattia, porta sollievo con compassione

e pazienza, giunga a compimento. Non si finisce mai di porre domande. Ma

non ci sono risposte, piuttosto vocazioni ad amare

Conclusione

Ho desiderato condividere con Lei queste riflessioni, senza avere nessuna

pretesa se non quella di farLe giungere il mio grazie, la mia ammirazione, ilmio stupore, per quello che fa, per quello che insegna a me e a tutti, e insieme

raccomandarLe quei percorsi che rendono migliore la pratica della cura dei

malati perché rendono migliori coloro che se ne curano.

Invoco ogni benedizione di Dio per Lei e per tutti i Suoi cari.

+ Mario DelpiniArcivescovo di Milano

Versione PDF :

lettera_agli_infermieri.pdf